giovedì 22 settembre 2022

 




N.3

Dalla preistoria ad oggi i bambini sono cresciuti e diventati adulti a suon di traumi.

Un tempo non lontano si usava minacciarli di abbandono, li si riempiva di botte oppure si chiudevano in luoghi bui dove scontare dei castighi per frenare la loro vivacità. Questo i nonni se lo ricordano bene. C’erano i sensi di colpa tipo mi farai morire, gli insulti del genere maledetto il giorno in cui sei nato, le umiliazioni come tirati giù i calzoni che ti frusto con la cinghia. Dolore morale e dolore fisico si mettevano insieme per rafforzare lo stato di soggezione. Qualche genitore si vantava di non aver mai dovuto percuotere il proprio figlio perché bastava uno sguardo per fargli fare la pipì addosso. Fiducia cieca, ubbidienza e sottomissione erano i requisiti richiesti ai bambini. Urla e invettive colpivano anche i più piccoli. Abbandonare i neonati in culla perché piangessero sino allo sfinimento era consuetudine, specie nelle famiglie con tanti marmocchi. Quando non erano gli adulti a “maltrattare” ci pensavano i fratelli a fare da bulli, il più grande ai più piccoli, e i piccolissimi se la prendevano con le bestiole di casa. Una volta qualcuno mi ha detto che non ero una brava madre perché era evidente che i miei figli non avevano paura di me. Io sono stata sempre gentile con i miei figli. Bussavo alla loro porta quando avevano meno di due anni chiedendo permesso. Al telefono chiedevo per prima cosa, ti sto disturbando? Ho insegnato loro l’empatia e il rispetto attraverso l’esempio. Li ho sempre salutati prima di andare via affidandoli a qualcuno di loro conoscenza, promettendo e mantenendo che sarei tornata presto. Ho spiegato loro le cose della vita attraverso storielle di mia invenzione in modo che potessero apprendere con curiosità le conseguenze di certe azioni: Ciccio Piccio non voleva star seduto sul seggiolino dell’auto. Ma sua mamma frenò all’improvviso e Ciccio Piccio volò via come un piccione ad ali spiegate andando a sbattere sul tergicristallo anteriore. Si spaccò la testa, andò in ospedale e il dottore gliela ricuci con ago e filo… si prese uno spavento terribile, da quel giorno chiese lui stesso alla mamma, per favore mi leghi al seggiolino?

Tra un grazie e un per favore miei a loro, hanno imparato la gentilezza e la buona educazione senza che io gliela insegnassi…pur non avendo mai avuto l’intenzione di traumatizzarli, sono certa di averlo fatto almeno una volta, inavvertitamente, ma sono consapevole di non averlo fatto come metodo educativo.

Nessun ragazzino è morto per educazione violenta, un tempo si veniva su bene con questi metodi, non come adesso! Eppure, noi psicoterapeuti sappiamo quanto questo tipo di educazione sia traumatica e comporti una serie di conseguenze sullo sviluppo psicologico della persona. Il tratto distintivo del trauma infantile è dato dal subire una violenza in quello che si ritiene essere un ambiente familiare e sicuro e dal venire maltrattati e spaventati da chi dovrebbe offrire protezione. Quando in famiglia sono proprio i genitori a incutere paura, sofferenza, umiliazione, allora ci sono gli estremi per una violenza psicologica traumatica.

La meccanica del trauma e le difese inconsce adottate dal sistema nervoso:

Gli studi sui sopravvissuti alla guerra del Golfo, all’attentato delle torri gemelle o ad altre gravi tragedie, hanno dimostrato, attraverso esami quali tac e risonanza magnetica, cosa avviene nel cervello dopo un trauma e in presenza di situazioni che potrebbero richiamarlo alla memoria.

Un segnale di allarme, come ad esempio un forte rumore, oppure la vista di un’auto che ci viene addosso, colpisce i nostri sensi recettori e viaggia sino al cervello che lo elabora. Il segnale di allarme prende due vie: una più veloce che colpisce il sistema nervoso mammaliano, sotto gli emisferi cerebrali, e una impercettibilmente più lenta che arriva alla corteccia cerebrale. La prima via consente una reazione immediata automatica che non necessita di un tempo di elaborazione. La seconda invece attiva un processo di analisi dell’informazione che consente di decidere quale reazione adottare. In questo modo possiamo evitare l’auto in corsa che non rispetta l’attraversamento pedonale senza sapere neanche come, semplicemente attivando un istinto all’arretramento. Certe reazioni devono essere necessariamente istantanee per salvarci la vita. Altre volte ci accorgiamo in un secondo momento, e dopo un forte spavento, che quello che sembrava un agguato in realtà era il movimento innocuo di un ramo d’albero.

Quindi, io immagino una stradina che ha come porta d’accesso gli occhi, che ad un certo punto si biforca. Una via è la scorciatoia che conduce in fretta e furia al centro di difesa immediata e automatica, l’altra via è più lunga e arriva invece alla torre di controllo e di valutazione che accerta la presenza del pericolo reale e può bloccare l’azione di difesa o farla proseguire.

Se lo spavento, il dolore, lo shock sono tanto intensi da risultare traumatici succede che la via verso la torre di controllo si blocca. La torre di controllo si trova nell’emisfero sinistro, è un elaboratore di dati e oltre a programmare le azioni da intraprendere si occupa dell’archiviazione delle informazioni inserendole in file di memoria dove possono essere recuperati in futuro e all’occorrenza. Chiudendosi la via preferenziale che porta al centro di elaborazione, le informazioni inerenti alla situazione di pericolo, di sofferenza fisica e/o psicologica, si frantumano e sparpagliano, come quando si stuzzica con un rametto l’ingresso di un formicaio e la fila ordinata di formiche si trasforma in un caotico fuggi fuggi generale. Alcune informazioni si dirigono verso l’emisfero destro e si imprimono nella memoria come fotogrammi o suoni o scene frammentate senza riferimenti temporali o nessi causali, altre si fissano come emozioni o come sensazioni, nulla va veramente perso, come casa che nasconde, ma non ruba.

Può accadere quindi che la persona che subisce un trauma non possa raccontare con chiarezza, seguendo un ordine temporale e un nesso causale, il concatenarsi degli eventi. L’esperienza traumatica è un po’ nascosta alla coscienza, c’è e non c’è. Questo permette alle persone di continuare la loro vita “come se non avessero vissuto il trauma”, invece che venirne completamente sovrastati e annientati per sempre.




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