N.3
Dalla
preistoria ad oggi i bambini sono cresciuti e diventati adulti a suon di
traumi.
Un tempo non
lontano si usava minacciarli di abbandono, li si riempiva di botte oppure si
chiudevano in luoghi bui dove scontare dei castighi per frenare la loro
vivacità. Questo i nonni se lo ricordano bene. C’erano i sensi
di colpa tipo mi farai morire, gli insulti del genere maledetto il giorno in
cui sei nato, le umiliazioni come tirati giù i calzoni che ti frusto con la
cinghia. Dolore morale e dolore fisico si mettevano insieme per rafforzare lo
stato di soggezione. Qualche genitore si vantava di non aver mai dovuto
percuotere il proprio figlio perché bastava uno sguardo per fargli fare la pipì
addosso. Fiducia cieca, ubbidienza e sottomissione erano i requisiti richiesti
ai bambini. Urla e invettive colpivano anche i più piccoli. Abbandonare i
neonati in culla perché piangessero sino allo sfinimento era consuetudine,
specie nelle famiglie con tanti marmocchi. Quando non erano gli adulti a
“maltrattare” ci pensavano i fratelli a fare da bulli, il più grande ai più
piccoli, e i piccolissimi se la prendevano con le bestiole di casa. Una volta
qualcuno mi ha detto che non ero una brava madre perché era evidente che i miei
figli non avevano paura di me. Io sono stata sempre gentile con i miei figli.
Bussavo alla loro porta quando avevano meno di due anni chiedendo permesso. Al
telefono chiedevo per prima cosa, ti sto disturbando? Ho insegnato loro l’empatia
e il rispetto attraverso l’esempio. Li ho sempre salutati prima di andare via affidandoli
a qualcuno di loro conoscenza, promettendo e mantenendo che sarei tornata
presto. Ho spiegato loro le cose della vita attraverso storielle di mia
invenzione in modo che potessero apprendere con curiosità le conseguenze di
certe azioni: Ciccio Piccio non voleva star seduto sul seggiolino dell’auto. Ma
sua mamma frenò all’improvviso e Ciccio Piccio volò via come un piccione ad ali
spiegate andando a sbattere sul tergicristallo anteriore. Si spaccò la testa,
andò in ospedale e il dottore gliela ricuci con ago e filo… si prese uno
spavento terribile, da quel giorno chiese lui stesso alla mamma, per favore mi
leghi al seggiolino?
Tra un
grazie e un per favore miei a loro, hanno imparato la gentilezza e la buona
educazione senza che io gliela insegnassi…pur non avendo mai avuto l’intenzione
di traumatizzarli, sono certa di averlo fatto almeno una volta,
inavvertitamente, ma sono consapevole di non averlo fatto come metodo
educativo.
Nessun
ragazzino è morto per educazione violenta, un tempo si veniva su bene con
questi metodi, non come adesso! Eppure, noi psicoterapeuti sappiamo quanto questo
tipo di educazione sia traumatica e comporti una serie di conseguenze sullo
sviluppo psicologico della persona. Il tratto distintivo del trauma infantile è
dato dal subire una violenza in quello che si ritiene essere un ambiente
familiare e sicuro e dal venire maltrattati e spaventati da chi dovrebbe offrire
protezione. Quando in famiglia sono proprio i genitori a incutere paura,
sofferenza, umiliazione, allora ci sono gli estremi per una violenza
psicologica traumatica.
La meccanica
del trauma e le difese inconsce adottate dal sistema nervoso:
Gli studi
sui sopravvissuti alla guerra del Golfo, all’attentato delle torri gemelle o ad
altre gravi tragedie, hanno dimostrato, attraverso esami quali tac e risonanza
magnetica, cosa avviene nel cervello dopo un trauma e in presenza di situazioni
che potrebbero richiamarlo alla memoria.
Un segnale
di allarme, come ad esempio un forte rumore, oppure la vista di un’auto che ci
viene addosso, colpisce i nostri sensi recettori e viaggia sino al cervello che
lo elabora. Il segnale di allarme prende due vie: una più veloce che colpisce
il sistema nervoso mammaliano, sotto gli emisferi cerebrali, e una
impercettibilmente più lenta che arriva alla corteccia cerebrale. La prima via
consente una reazione immediata automatica che non necessita di un tempo di
elaborazione. La seconda invece attiva un processo di analisi dell’informazione
che consente di decidere quale reazione adottare. In questo modo possiamo
evitare l’auto in corsa che non rispetta l’attraversamento pedonale senza
sapere neanche come, semplicemente attivando un istinto all’arretramento. Certe
reazioni devono essere necessariamente istantanee per salvarci la vita. Altre
volte ci accorgiamo in un secondo momento, e dopo un forte spavento, che quello
che sembrava un agguato in realtà era il movimento innocuo di un ramo d’albero.
Quindi, io
immagino una stradina che ha come porta d’accesso gli occhi, che ad un certo
punto si biforca. Una via è la scorciatoia che conduce in fretta e furia al
centro di difesa immediata e automatica, l’altra via è più lunga e arriva invece
alla torre di controllo e di valutazione che accerta la presenza del pericolo
reale e può bloccare l’azione di difesa o farla proseguire.
Se lo
spavento, il dolore, lo shock sono tanto intensi da risultare traumatici succede
che la via verso la torre di controllo si blocca. La torre di controllo si
trova nell’emisfero sinistro, è un elaboratore di dati e oltre a programmare le
azioni da intraprendere si occupa dell’archiviazione delle informazioni
inserendole in file di memoria dove possono essere recuperati in futuro e
all’occorrenza. Chiudendosi la via preferenziale che porta al centro di
elaborazione, le informazioni inerenti alla situazione di pericolo, di
sofferenza fisica e/o psicologica, si frantumano e sparpagliano, come quando si
stuzzica con un rametto l’ingresso di un formicaio e la fila ordinata di
formiche si trasforma in un caotico fuggi fuggi generale. Alcune informazioni
si dirigono verso l’emisfero destro e si imprimono nella memoria come fotogrammi
o suoni o scene frammentate senza riferimenti temporali o nessi causali, altre
si fissano come emozioni o come sensazioni, nulla va veramente perso, come casa
che nasconde, ma non ruba.
Può accadere
quindi che la persona che subisce un trauma non possa raccontare con chiarezza,
seguendo un ordine temporale e un nesso causale, il concatenarsi degli eventi.
L’esperienza traumatica è un po’ nascosta alla coscienza, c’è e non c’è. Questo
permette alle persone di continuare la loro vita “come se non avessero vissuto
il trauma”, invece che venirne completamente sovrastati e annientati per
sempre.